Investitore responsabile

Per un capitalismo della fiducia

Un nuovo paradigma per interpretare il rapporto tra impresa e società

Un filosofo, un matematico

Adam Smith, il padre dell’economia moderna, non era un economista. Era un filosofo morale di Edimburgo, e se tutti lo ricordano per la Ricchezza delle Nazioni, non molti sanno che è stato anche l’autore di Teoria dei sentimenti morali. Qui Smith prova a dare un fondamento alle relazioni sociali, volendo dimostrare che esse si basano soprattutto sul concetto di  “simpatia”, nel senso etimologico del termine (“sentire insieme”). Il paragrafo iniziale recita: “Per quanto egoista si possa ritenere l’uomo, sono chiaramente presenti nella sua natura alcuni principi che lo rendono partecipe delle fortune altrui, e che rendono per lui necessaria l’altrui felicità, nonostante da essa egli non ottenga altro che il piacere di contemplarla. Di questo genere è la pietà o compassione, l’emozione che proviamo per la miseria altrui, quando la vediamo, oppure siamo portati a immaginarla in maniera molto vivace (…). Compassione, felicità, pietà. Per il filosofo morale Smith sono dunque queste le basi fondanti delle relazioni umane, la mano invisibile viene dopo. 

Facciamo ora un salto di due secoli e arriviamo al 1950. Un giovane matematico americano, precoce malato di schizofrenia, consegna una smilza tesi di dottorato che gli regalerà negli anni fama scientifica e cinematografica. Il suo nome è John Nash, ed ha appena dimostrato che due entità che si trovano ad agire in un ambiente a informazione completa tendono a raggiungere un equilibrio strategico, ma questo equilibrio può non essere il migliore per entrambi, in uno schema che viene definito “gioco non cooperativo”.  L’esempio più popolare di questo risultato è il “Dilemma del prigioniero”, in cui si immaginano due uomini indagati per un reato interrogati separatamente. Entrambi avrebbero l’interesse a non collaborare con la polizia, ma non fidandosi di cosa faccia l’altro finiscono con l’accusarsi a vicenda, e ad essere condannati a una pena superiore a quella prevista per la mancata collaborazione. I risultati di Nash saranno da allora utilizzati nei campi più diversi: dai negoziati militari alle guerre commerciali, dalle competizioni tra gruppi editoriali alle cause di divorzio.  
 

L’impresa come attore sociale

Dai tempi di Nash – e ovviamente da quelli di Adam Smith – l’economia mondiale e la società sono cambiate enormemente. Ma il tema della fiducia e della cooperazione rimangano tra i fondamenti del capitalismo di oggi, immateriale, sofisticato e iperconnesso. Anzi, mai come proprio oggi, a dieci anni esatti dallo scoppio di una crisi finanziaria violenta e globale, il ruolo dell’impresa, la sua ragione d’essere e la sua missione diventano così importanti e oggetto di attenzione crescente. Il tema della fiducia (dei consumatori, dei cittadini, dei governi nei confronti delle imprese) è allora un cardine di sistema, perché oggi le imprese si trovano a detenere un potere sociale enorme, che travalica il loro perimetro industriale: oggi le imprese possono favorire l’integrazione e l’inclusione sociale, possono supportare le politiche governative sul welfare e l’educazione, possono addirittura modificare il clima. Il loro ruolo sociale è caratterizzato da un’attenzione non solo nei confronti dei profili di scelta dei consumatori ma alle loro richieste in termini di impegno e responsabilità.

Si sta diffondendo la consapevolezza che l’impresa ha un ruolo sociale anche se fa solo il suo mestiere. Il sociologo Parag Khanna nel suo fortunato Come si governa il mondo (2011), con pragmatismo quasi ingenuo, scrive: “Se la Wal -  Mart vuole sostenere i diritti delle donne in Africa, l’unica cosa che deve fare è aprire un supermercato”. Fiducia e cooperazione sono anche alla base di quella particolare area chiamata Social Innovation. Secondo Geoff Mulgan, massimo evangelizzatore in questo campo, noi “definiamo innovazioni sociali le nuove idee (prodotti, servizi e modelli) che soddisfano dei bisogni sociali (in modo più efficace delle alternative esistenti) e che allo stesso tempo creano nuove relazioni e nuove collaborazioni. In altre parole, innovazioni che sono buone per la società e che accrescono le possibilità di azione per la società stessa”. Per quanto sembri una definizione  astratta e generica, nel suo perimetro ricadono iniziative di diversa natura, dal microcredito al crowfunding, comprendendo la  sharing economy, e i riferimenti sono testi istituzionali come La Guida all’Innovazione Sociale dell’Unione Europea, enti come l’Office of Social Innovation and Civi Participation negli Stati Uniti, mentre in Italia, nel 2013, è stata presentata al Miur la prima Social Innovation Agenda italiana, intitolata La via italiana alla social innovation (vedi Geoff Mulgam, Social Innovation, 2014 a cura di Maria Grazia Mattei).
 

Creare valore condiviso

Nel 2011 esce sull’Harvard Business Review un articolo di Michael Porter e Mark Kramer intitolato “Creating Shared Value”.  Si dà il via a un nuovo paradigma per interpretare il rapporto tra impresa e società e viene di fatto smentita l’alternativa, di matrice neoclassica, tra successo aziendale –in termine di profitti e sviluppo del business -  e benessere della comunità. In un certo senso, è come se oggi le aziende proponessero un patto ai propri stakeholder, basato, ancora una volta, sulla fiducia: creiamo valore insieme, e che sia valore sostenibile nel tempo, valore per i consumatori, con prodotti e servizi sempre più disegnati sull’ascolto e le reali necessità, valore per la comunità, con interventi mirati e in coerenza con il business, valore per i dipendenti e gli azionisti, per crescere insieme all’azienda e viverla come luogo dove esercitare il pensiero e la creatività.



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