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La corsa delle economie asiatiche per il primato nel campo dell’intelligenza artificiale

L’intelligenza artificiale (Ia) – un’area della scienza informatica votata allo sviluppo di sistemi tecnologici in grado di svolgere autonomamente compiti e attività tipici della mente umana – si sta affermando ormai da anni, nella consapevolezza degli attori statali ed economici, come una delle principali forze trainanti dell’innovazione e dello sviluppo. Le tecnologie connesse all’Ia promettono, e in parte hanno già concretizzato, le applicazioni più disparate: dall’Artificial Intelligence Marketing (Aim) sino alla logistica, dall’assistenza sanitaria ai servizi finanziari e alla tecnofinanza (FinTech). La corsa all’adozione dell’Ia e al primato in questo settore è disputata, nell’Occidente come nella Regione asiatica, sui terreni degli investimenti e delle startup: il numero di “giovani” imprese attive nel campo dell’Ia costituisce infatti un importante indicatore dello sviluppo del settore nei singoli Paesi e del livello di preparazione e specializzazione delle rispettive forze lavoro. Stando a uno studio effettuato dalla società di consulenza Roland Berger e da Asgard Capital per le istituzioni politiche europee, ad oggi gli Stati Uniti vantano un primato incontrastato su quest’ultimo fronte, con oltre 1.390 startup attive nel paese. La Cina segue con 383 startup; altri attori nazionali di primo piano includono Israele (362 startup), il Regno Unito (245), il Giappone (113), l’India (82) e la Corea del Sud (42). Pechino, Tokyo, Shanghai, Shanzhen, Seul, Singapore e Bangalore, che collettivamente ospitano oltre 500 imprese impegnate nello sviluppo dell’intelligenza artificiale e delle sue applicazioni, sono alcune delle metropoli asiatiche che si contendono lo status di hub regionale dell’Ia.

Il Sud-est asiatico, nello specifico, investe nel settore da anni e ha visto aumentare costantemente l’output di brevetti sin dal 2013, come attesta uno studio pubblicato da Clarivate Analytics: la regione ha prodotto ben 24 mila brevetti nel campo dell’Ia, provenienti per l’86 per cento da Singapore, Malesia e Thailandia. La sola Singapore, in particolare, ha prodotto il 77 per cento dei brevetti complessivi dell’area Asean e oltre il 40 per cento della ricerca nel campo dell’intelligenza artificiale. Al Sud-est asiatico, così come a Paesi come Giappone e India, manca però il massiccio investimento di fondi pubblici effettuato dal governo cinese: Pechino ha adottato lo scorso anno un piano in tre punti per conseguire il primato globale nel campo dell’intelligenza artificiale entro il 2030, con l’obiettivo di fare di quel settore un mercato da 150 miliardi di dollari. La prima parte del piano, che ha per orizzonte temporale il 2020, prevede lo sviluppo di una teoria e una tecnologia dell’Ia di nuova generazione, con l’obiettivo di conseguire una “svolta” nel quinquennio successivo, conseguendo “l’aggiornamento dell’industria e la trasformazione economica”. Il piano si alimenta di investimenti faraonici, come quello da 2,3 miliardi di dollari per un nuovo centro di ricerca sull’Ia a Pechino, e un secondo da 5 miliardi di dollari per un secondo hub nella città portuale di Tientsin. Stando a stime di settore citate dal quotidiano “Asia Times”, Pechino è stata titolare nell’ultimo quinquennio di oltre la metà degli investimenti mondiali nel campo dell’intelligenza artificiale. La Cina, però, sconta anche significativi svantaggi strutturali, come la mancanza di chip proprietari: una vulnerabilità che grandi aziende come Baidu, il colosso dell’e-commerce Alibaba e il produttore di apparecchi elettronici per abitazioni Gree Electric Appliances si sono attivati per colmare. Huawei Technologies, in particolare, ha lanciato un guanto di sfida ai maggiori costruttori di semiconduttori mondiali introducendo l’Ascend 910, un microchip progettato per l’intelligenza artificiale nei centri dati, che l’azienda sostiene offra la maggior densità di computazione al mondo. Le principali economie asiatiche stanno tentando di tenere il passo della Cina: è il caso della Corea del Sud, che teme di perdere il suo status di leader nel settore dei semiconduttori. Il Paese, che vanta una penetrazione di Internet di quasi il 100 per cento e che si è dotato per primo di una rete nazionale per l’Internet delle cose, investirà 2 miliardi di dollari nella ricerca connessa all’Ia entro il 2022.

In Giappone, invece, gli investimenti governativi nell’Ia sono pari ad appena il 20 per cento di quelli cinesi, ma quelli privati ammontano a ben 5,4 miliardi di dollari. Il governo giapponese ha deciso di affidare lo sviluppo alle aziende e al mondo accademico, ed è impegnato piuttosto a tracciare la rotta per la definizione le regole operative dell’intelligenza artificiale, un campo ancora indefinito che si presta a toccare questioni e problematiche, come quelle relativo alla privacy. I progressi del Giappone sul fronte della regolamentazione hanno suscitato l’interesse dell’Unione europea: lo ha dichiarato lo scorso ottobre il vicepresidente della Commissione Ue, Jyrki Katainen. Ue e Giappone hanno firmato quest’anno un accordo di partenariato economico, ma si sono impegnati a proseguire il dialogo in materia di industria e commercio. Katainen ha preso parte alla prima di queste sessioni di dialogo, cui hanno partecipato anche i ministri giapponesi di Esteri ed Economia, Taro Kono e Hiroshige Seko. L’intelligenza artificiale è una delle priorità del dialogo, ha spiegato il funzionario europeo. Tokyo si è già dotata di un comitato per la regolamentazione delle tecnologie legate all’Ia. Il mese scorso tale organismo ha adottato la bozza di una nuova linea guida legale che esplicita il divieto da parte delle intelligenze artificiali di violare i diritti umani fondamentali e cita l’importanza di gestire le informazioni personali con cautela, e di garantire la sicurezza delle Ia.