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Le politiche fiscali nell’UE: la lunga strada verso l’integrazione

Scarsa armonia tra i paesi, nonostante vari tentativi di coordinamento tributario-fiscale

Che cosa si intende esattamente quando si parla di conti pubblici? E da cosa è composta la “spesa pubblica” di uno stato? Le principali entrate delle amministrazioni pubbliche dei paesi dell’UE sono costituite da imposte, contributi sociali, cessioni di beni e redditi da capitale.

Le principali voci di spesa sono quelle per dipendenti pubblici, beni e servizi acquistati dalle amministrazioni pubbliche, interessi sul debito pubblico e contributi e investimenti fissi lordi.

La disciplina europea prevista dal patto di stabilità e crescita (accordo tra i paesi membri UE per il controllo delle politiche di bilancio entrato in vigore il 1 gennaio 1999) fissa due parametri: a. un disavanzo (previsto o effettivo) non superiore al 3% del PIL e b. un rapporto debito/PIL non superiore al 60%. Tale patto era finalizzato ad assicurare una sostanziale sincronizzazione dello sviluppo economico nell’UE (con particolare riguardo ai 19 paesi dell’area euro) e ad evitare che i singoli paesi adottino misure che procurino loro un indebito vantaggio per le loro economie a scapito di quelle di altri paesi membri.

Nel 2017, il disavanzo (deficit) pubblico (dato dalle entrate meno le uscite dell’anno) è stato pari a -1,0% nell’UE a 28 membri e a -0,9% nell’area euro. In quell’anno, 12 paesi membri hanno registrato eccedenze e tra questi Svezia e Germania (+1,3%) e Paesi Bassi (+1,1%).

Il rapporto debito/PIL è stato nel 2017 di 81% in media nell’UE e dell’86,7% nell’area euro, con ben 15 stati membri che hanno registrato un rapporto debito/PIL superiore a quanto previsto dal patto di stabilità: Grecia (178,6%), Italia (131,8%), Portogallo (125,7%), Belgio (103,1%) e Spagna (98,3%).

Le entrate pubbliche sono state nel 2017 pari al 44,9% del PIL dell’UE, con una spesa pubblica pari al 45,8%. Nell’area euro questi valori sono stati rispettivamente del 47,1% e del 46,2% del PIL. Nel complesso, dunque, la spesa pubblica di tutti i paesi membri, che era cresciuta fino al 50,7% nei primi anni dopo l’inizio della crisi 2007-2008, ha preso successivamente a scendere fino al 2017, con entrate che, anche nell’area euro, sono cresciute ad un ritmo superiore rispetto alle spese e una conseguente contrazione del disavanzo complessivo UE. Va però subito avvertito che il livello di spese ed entrate varia sensibilmente tra uno stato membro e l’altro.

In concreto le entrate sono costituite principalmente da imposte e contributi sociali. Le prime rappresentavano nel 2017 rispettivamente il 58,9% nell’ UE e il 56,6% nell’area euro. Le seconde il 29,75 e il 33,1% nell’area euro. In realtà, il mix imposte-contributi varia molto tra i diversi Paesi: così le imposte rappresentavano meno del 50% in Slovacchia e Repubblica Ceca, ma l’87,6% in Danimarca e l’81,5% in Svezia, mentre i contributi toccavano oltre il 37% in Germania, Lituania, Repubblica Ceca e Slovacchia e solo l’1,75 in Danimarca.

La spesa pubblica, sempre nel 2017, è anzitutto composta di trasferimenti sociali (prestazioni sociali e trasferimenti sociali in natura) per un valore pari a oltre il 45% (e quasi il 48% nei Paesi dell’area dell’euro), mentre i redditi da lavoro nella pubblica amministrazione arrivano a toccare il 21,7% (quasi il 21% nell’area euro).

L’analisi della finanza pubblica in “entrata” e “uscita” mette in evidenza uno degli aspetti maggiormente critici dell’Unione, e cioè il grado di coesione e integrazione a livello di politiche fiscali, su cui sino ad oggi ci sono state numerose difficoltà che hanno portato alla mancanza di politiche comuni di armonizzazione e coordinamento. Sin dalla sua costituzione l’UE e, prima ancora la Comunità europea, ha compiuto diversi tentativi di armonizzare la materia tributario-fiscale, anche se sino ad oggi non sono stati raggiunti risultati significativi.

Tutti i governi europei adottano infatti politiche fiscali che riflettono le loro necessità e le loro “visioni del mondo” in rapporto a due aspetti principali: le politiche sociali più o meno ampie che intendono sostenere e la capacità di attirare investimenti di aziende - specie multinazionali- offrendo loro vantaggi di natura fiscale. Si vedano riguardo al primo aspetto le differenze fra i paesi scandinavi e il Regno Unito mentre, per l’altro, sono ben noti gli esempi dell’Irlanda o del Lussemburgo, che hanno applicato regimi fiscali particolarmente agevolati alle aziende (come le grandi multinazionali operanti sulla rete, tipo Google, Amazon ecc.) che investivano in quei paesi.

Questo comportamento rappresenta un ostacolo obiettivo al rafforzamento del processo di integrazione europea e alla lunga rischia di dar luogo, direttamente o indirettamente, a divergenze non trascurabili nella realtà economica e sociale (e dunque politica) dei diversi Stati membri. In particolare esso può determinare una progressiva divergenza tra paesi membri “ricchi” e paesi membri “poveri”, dando luogo a situazioni potenzialmente instabili e conflittuali: proprio per questo l’Unione ha cercato di reagire con tentativi di parziale armonizzazione fiscale tanto nell’ambito delle imposte dirette che di quelle indirette. Nei tentativi di politiche comuni UE rivolte all’imposizione diretta si segnalano in particolare quello, conosciuto con l’acronimo CCCTB (Common Consolidate Corporate Tax Base), di determinare una base imponibile definita e comune a tutti i paesi membri in rapporto alle imprese multinazionali, e quello HST (Home State Taxation) indirizzato a definire uno schema pilota comune per la tassazione diretta. A tutt’oggi, comunque, oltre a non essere ancora vigente un modello europeo comune per la tassazione diretta, non esistono neppure codici reciprocamente conformi di tassazione e di regolazione delle materie fiscali, dirette e indirette.  Se la nuova Commissione, che sarà formata nel prossimo autunno come risultato delle elezioni del maggio 2019, non riuscirà a por mano a una qualche forma di effettivo coordinamento fiscale fra gli Stati membri, il processo di integrazione rischia di restare monco.