La Cina nel mondo degli imperi

In 25 anni, il Pil cinese è passato dal 3,6% al 17% del Pil globale. Pechino oggi è alle prese con diverse difficoltà, dalla crisi demografica ai consumi deboli. Un nuovo scenario tra la guerra commerciale di Trump, gli scarsi rapporti con l’Ue e la relazione privilegiata con Mosca

Daniele De Giovanni
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IL CONTESTO
Questo articolo analizza il ruolo della Cina nel contesto globale, soprattutto in relazione al rapporto con gli Stati Uniti.

Nel 1992, nel suo saggio “La fine della storia”, Francis Fukuyama sostenne che la dissoluzione dell’Unione Sovietica e la conseguente fine della Guerra Fredda, avrebbero segnato la vittoria della democrazia liberale, del libero mercato e l’affermarsi degli Stati Uniti come loro principale interprete. In effetti la storia sembrava inesorabilmente scorrere in questa direzione, con Washington a guida di un mondo sempre più tendente a tali valori.

Gli Stati Uniti cercavano di cooperare con altre potenze e, quando possibile, di cooptarle all’interno di quell’ordine globale che avevano già cominciato a costruire alla fine della Seconda guerra mondiale; ordine garantito non solo attraverso forza militare ed economica, ma anche attraverso l’uso di quel soft power che Washington nel tempo ha acquisito.

All’inizio di questo nuovo secolo, l’economia americana – da sempre la più grande al mondo – era ritornata a superare il 30 per cento del Pil globale (nel 1992 era il 25,5 per cento) e, sebbene con una bilancia commerciale in forte squilibrio, deteneva anche la leadership nel commercio internazionale. Ancor più rilevante, come definito da Valéry Giscard d’Estaing, «l’esorbitante privilegio» di avere il dollaro come principale valuta di riserva del mondo che ha dato agli Stati Uniti non pochi vantaggi. La supremazia si estendeva anche al campo tecnologico e militare, una supremazia tale da sconfiggere qualsiasi avversario e dissuaderlo dal lanciare ogni tipo di sfida «all’impero americano».

Il nuovo secolo ha visto, grazie a una serie di riforme orientate al mercato e all’implementazione di mirate politiche industriali, l’emergere della Cina come nuovo e importante protagonista dell’economia internazionale. Un protagonista in grado di alterare gli equilibri che sembravano ormai essere consolidati. Il tutto in contrapposizione agli Stati Uniti, in una sorta di nuova guerra fredda combattuta anche sui mercati internazionali dove le nuove imprese cinesi affrontano, in un crescente regime di concorrenza, le tradizionali multinazionali americane ed europee.

Il Pil cinese oggi ha raggiunto il 17 per cento del Pil mondiale. Era solo il 3,6 per cento nel 2000. Ancor più importante il ruolo assunto dalla Cina all’interno del commercio internazionale, grazie allo sviluppo di una solida base industriale e la competitività via via acquisita in quasi tutti i settori di attività produttiva. Dal 2008 la Cina è diventata il primo esportatore al mondo con il 15 per cento di quota mercato, distaccando nettamente gli Stati Uniti, la cui quota si è invece ridotta all’8 per cento dal 12,1 per cento dell’anno 2000.

In venticinque anni Pechino ha accumulato un surplus commerciale per 8,4 trilioni di dollari, di poco inferiore a quello dei paesi Opec (8,9 trilioni) e più di sei volte superiore a quello dell’Unione europea. Nello stesso periodo, gli Stati Uniti hanno invece registrato un deficit commerciale cumulato di quasi 21 trilioni di dollari.

Nel solo triennio 2022-2024, nonostante siano divenuti esportatori netti di gas e petrolio, gli Stati Uniti hanno registrato un disavanzo commerciale per 3,7 trilioni: il 27,8 per cento con la Cina, il 18,3 per cento con l’Unione europea e il 18,9 per cento con Messico e Canada, sebbene con questi ultimi due Paesi, durante il suo primo mandato, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump avesse rinegoziato l’accordo di libero scambio (Nafta) ritenuto particolarmente sfavorevole.

Da questi dati si comprende l’ossessione con cui Trump avesse, già dalla campagna elettorale, insistito sul tema del riequilibrio della bilancia commerciale, attaccando indistintamente tutti i partner, accusandoli di ogni tipo di malpractice. In realtà, come è apparso chiaro successivamente, dietro tutto ciò, si nascondeva il vero obiettivo della nuova amministrazione americana: colpire la Cina, ormai l’unico e più pericoloso antagonista di Washington.

La Cina, più in generale l’Asia, divenne il centro della politica estera americana (Return to the Asia Pacific) già dalla presidenza Obama che, nonostante l’introduzione di qualche dazio, cercò di trovare con il presidente Xi Jinping un’intesa su tanti temi, dalla cyber sicurezza, al clima e alle dispute territoriali nel Mar Cinese Meridionale. Obama sembrava aver raccolto il messaggio che lo stesso Xi aveva lanciato agli Stati Uniti nel 2013 durante un loro precedente incontro: «Nessun conflitto né scontro, rispetto reciproco per i rispettivi interessi chiave e principali affari, cooperazione vantaggiosa per entrambi».

Di tutt’altro tenore le relazioni degli Stati Uniti con la Cina durante le presidenze di Donald Trump e Joe Biden. Sebbene con approcci e toni differenti, la Cina non era più vista come semplice rivale con il quale comunque collaborare, era piuttosto un pericoloso avversario da dover contrastare e indebolire.

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Si chiudeva, di fatto, l’era della cooperazione e si apriva quella della concorrenza tra potenze. Da un lato, la Cina affermatasi grazie alla sua spettacolare crescita economica. Dall’altro, la Russia di Vladimir Putin che grazie anche alle sue imponenti risorse energetiche tentava di recuperare, nostalgicamente e forse in modo velleitario, il ruolo e l’autorità dell’Unione sovietica.

In tale contesto, la strategia di difesa degli Stati Uniti puntava al consolidamento dei propri vantaggi geostrategici e della leadership in campo economico, tecnologico e militare.

Nel 2022 in modo chiaro ed esplicito, la National Security Strategy individuò nella Cina «il solo competitor intenzionato a ridisegnare l’ordine internazionale e con le capacità economiche, tecnologiche, militari e diplomatiche per poterlo fare». Per tale ragione, l’ascesa del celeste impero andava contenuta. Doveva essere ridotto il suo surplus commerciale che aveva consentito di investire nel settore della difesa e di costituire un potente esercito; doveva essere resa difficile la presenza delle imprese cinesi nelle filiere produttive di maggiore importanza, così sembrava necessario tentare di fare leva sulle ancor consistenti disuguaglianze tra popolazione urbana e rurale al fine di «spaccare» la società e indebolire la ultradecennale leadership di Xi Jinping.

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Mai come in questi ultimi anni, a partire dalla pandemia da Covid-19, la Cina ha evidenziato alcuni punti di debolezza e importanti problemi da affrontare.

In primo luogo, la demografia. Dal 2022 e per la prima volta dal 1961, la popolazione cinese è in calo e, soprattutto, sta invecchiando. Dall’inizio del secolo la popolazione di età superiore ai 65 anni ha quasi raddoppiato il suo peso, raggiungendo nel 2024 il 14,7 per cento del totale. Un dato che preoccupa la classe dirigente cinese, ma che non si discosta da quello che caratterizza le maggiori economie del mondo in cui il tasso di natalità è in deciso calo. Nello stesso periodo, in Europa la percentuale è passata dal 15,7 al 22 per cento, mentre negli Stati Uniti ha raggiunto il 17,9 per cento, in aumento di 5,7 punti.

Per far fronte a questo problema, che rischia di avere un significativo impatto sulla forza lavoro e la crescita economica nel medio-lungo termine, la Cina ha delineato una nuova politica demografica. Ha dapprima abbandonato la politica del figlio unico introdotta alla fine degli anni Settanta del secolo scorso e, successivamente, per stimolare la natalità, ha introdotto incentivi e sostegni per le famiglie.

Questo epocale passaggio, dal controllo all’incentivo delle nascite, rappresenta anche una sfida culturale e sociale che non è detto che porti ai risultati attesi. Alcuni sociologi ed economisti, infatti, avvertono che le misure adottate rischiano di non essere sufficienti, dato che i problemi economici, le incertezze sul futuro e i profondi mutamenti intervenuti nella società cinese continuano a scoraggiare le nuove generazioni dal formare famiglie numerose.

Sul versante macroeconomico, la principale sfida da affrontare è la bassa propensione al consumo, che costituisce un evidente limite alla crescita futura dell’economia cinese, fino a oggi fortemente trainata da investimenti ed export. Negli ultimi dieci anni, i consumi delle famiglie hanno in media contribuito a poco meno del 39 per cento del Pil, una percentuale decisamente inferiore a quella degli Stati Uniti e dell’Unione europea, che si sono rispettivamente attestate al 67,6 e 53 per cento.

Se poi si analizza il dato relativo ai consumi nelle aree rurali, circa 450 milioni persone (la popolazione dell’intera Unione europea), il problema assume ancor più rilevanza. Sebbene in calo, gli abitanti nelle aree rurali (32,3 per cento nel 2024, contro il 57 per cento nel 2015) hanno, infatti, una ancor più bassa propensione al consumo che limita il loro contributo al Pil del Paese all’8 per cento.

Se la politica economica del governo cinese non riuscirà a stimolare i consumi privati, tirando fuori il Paese da una strisciante deflazione, anche l’obiettivo di una più contenuta crescita al 5 per cento potrebbe essere a rischio; soprattutto se le esportazioni dovessero ridursi in conseguenza della nuova politica commerciale americana.

Se il governo cinese non riuscirà a stimolare i consumi privati, anche la crescita del 5% potrebbe essere a rischio

Un altro tema che richiede attenzione e adeguate politiche pubbliche è quello relativo alle finanze pubbliche cinesi, negli ultimi anni significativamente deterioratesi. Una crescita economica inferiore alle attese ha contribuito all’incremento del deficit di bilancio (7,4 per cento nel 2024), così come del debito pubblico che ha raggiunto il 60,5 per cento del Pil. Se si considerano anche le passività dei veicoli di finanziamento costituiti dai governi locali, il debito pubblico cinese raggiungerebbe il 124 per cento. Una percentuale non distante da quella del debito pubblico degli Stati Uniti, anch’esso in forte crescita in questi ultimi anni.

Il cosiddetto «debito pubblico aumentato», così lo definisce il Fondo monetario internazionale, potrebbe porre problemi di sostenibilità nel medio termine ed è per questo che lo stesso Fmi raccomanda al governo cinese l’adozione di adeguate politiche di stabilizzazione centrate sulla riduzione dei disavanzi primari di bilancio sottoposto a forte pressione non solo dalla rallentata crescita ma anche dall’invecchiamento della popolazione.

L’insieme di questi problemi, a cui si aggiungono un calo della produttività del lavoro e una crescente disoccupazione giovanile, non hanno minimamente ridotto l’importanza strategica della Cina, che per certi versi è addirittura aumentata anche per effetto del «disordine» creato dalla nuova amministrazione americana. Coloro che enfatizzano oggi le debolezze della Cina rischiano di sottovalutare l’importanza e il ruolo di un Paese che continua a progredire dal punto di vista tecnologico e militare, come dimostra il successo delle ultime iniziative sull’intelligenza artificiale, ambito nel quale sembrava che gli Stati Uniti fossero destinati a primeggiare senza rivali.

La Cina, consapevole della fragilità delle proprie relazioni con gli Stati Uniti, temeva da tempo che Washington cominciasse in modo più deciso a contrastare la propria ascesa. E la vittoria di Trump alle elezioni presidenziali del 2024 non ha fatto altro che alimentare questo timore. Era ancora vivo il ricordo della guerra commerciale da lui avviata durante il suo primo mandato e preoccupavano i messaggi che lo stesso Trump aveva lanciato durante la campagna presidenziale. Pechino non temeva solo eventuali nuove guerre commerciali, ma anche critiche alla gestione delle minoranze e dei dissidenti, così come il sempre più esplicito sostegno di Washington a Taiwan.

L’attesa non è stata lunga e le dichiarazioni della campagna elettorale si sono subito trasformate in azioni, soprattutto in campo commerciale, con una serie di dazi incrementali che nel famoso Liberation day sono arrivati a superare il 50 per cento.

Se le azioni di Trump, nonostante la loro erraticità, erano più o meno attese, ha spiazzato tutti la decisa e dura risposta di Pechino per nulla intimidita dalla violenza verbale del presidente americano. Dapprima la significativa reazione ai dazi e successivamente l’introduzione di importanti restrizioni alle esportazioni, hanno portato a un’escalation che rischiava di paralizzare l’intero commercio tra i due Paesi. Solo un accordo tra le parti avrebbe potuto scongiurare anche le importanti ripercussioni su tutta l’economia mondiale.

Negoziare per trovare un accordo nel breve periodo, sebbene per ragioni diverse, era l’obiettivo di tutti. Gli Stati Uniti per cercare di ridurre l’imponente deficit commerciale, la Cina per evitare di dover affrontare temi più strutturali quali i diffusi sussidi pubblici alle imprese. Washington è apparsa subito maggiormente desiderosa di avviare la trattativa e allentare le tensioni commerciali, segno che la reazione cinese aveva colpito e messo in evidenza alcune debolezze della posizione americana.

La carta vincente di Pechino è stato l’embargo alle esportazioni di terre rare, azione in grado di colpire significativamente alcuni importanti settori produttivi dell’industria americana più di quanto non facesse il blocco delle esportazioni americane alla Cina di talune categorie di microchip, delle parti di ricambio degli aeroplani per uso commerciale e di altre tecnologie.  Più in generale, come è stato evidenziato da molti analisti, la capacità degli Stati Uniti di tollerare gli effetti di una guerra commerciale con la Cina è inferiore a quella del suo rivale. Ciò non solo perché i consumatori e le imprese americane immediatamente avvertono la carenza di beni di consumo e intermedi, ma anche perché gli sforzi fatti dalla Cina per aumentare la resilienza del proprio sistema economico cominciano a dare i loro risultati.


NUMBERI

14,7%

Gli over 65 in Cina.

450mln

I cinesi che vivono nelle aree rurali.

2025

Cina e Stati Uniti hanno raggiunto un accordo sui dazi.

Credit: JOHN KELLERMAN/ALAMY

Il processo di diversificazione del proprio commercio internazionale ha ridotto infatti la dipendenza dalle catene di approvvigionamento della Cina dalle importazioni dagli Stati Uniti, così come grazie al transhipment (trasbordo) sono state protette le esportazioni dall’applicazione di dazi diretti. Tra il 2018 ed il 2024 il commercio internazionale della Cina con gli Stati Uniti è infatti passato dal 13,8 all’11,2 per cento del totale.

A maggio 2025, le parti hanno raggiunto un primo accordo. E dopo l’incontro di fine ottobre in Corea del Sud tra Trump e Xi, gli Stati Uniti hanno deciso la riduzione di alcuni dazi, annunciando anche un accordo sulle terre rare.

Le concessioni reciproche alla base dell’accordo sembrano apparentemente simmetriche ed equilibrate, ma a ben vedere le posta in gioco è ben diversa, dato che i settori coinvolti sono di rilevanza strategica sostanzialmente diversa. Se sul versante americano sono coinvolte industrie più tradizionali, quali quella automobilistica, l’elettronica di consumo e parti di quella legata alle energie rinnovabili (turbine eoliche, pannelli solari, ecc.), su quello cinese è in gioco il futuro dello sviluppo dell’intelligenza artificiale, una delle nuove frontiere tecnologiche dove si è più recentemente aperta la concorrenza tra le due super potenze.

Nonostante i notevoli progressi conseguiti in tale settore, la Cina è però ancora totalmente dipendente da particolari semiconduttori oggi esclusivamente realizzati da imprese americane, per i quali ci vorranno ancora anni prima che l’industria nazionale possa essere in grado di produrli. Al di là dell’importante contropartita ottenuta, a Washington è prevalsa anche la tesi che gli Stati Uniti avrebbero comunque vinto la sfida sull’intelligenza artificiale e che la fornitura di semiconduttori alla Cina avrebbe reso lo sviluppo dell’industria cinese dipendente dalla tecnologia americana.

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L’accordo raggiunto è di fatto solo una tregua che deve però essere ancora tradotta in qualcosa di più stabile e definitivo, obiettivo non facile da raggiungere soprattutto se il perimetro andrà oltre al semplice ambito commerciale, dove la Cina vuole limitare il confronto. In tale ambito Pechino è infatti abbastanza fiduciosa di poter raggiungere un accordo; non solo perché è consapevole delle sue importanti leve negoziali, ma anche perché ha riscontrato in Trump un atteggiamento diverso rispetto alla sua prima presidenza. Vi è meno ideologia e più pragmatismo così come sono state evitate critiche e attacchi di tipo politico alla Cina. Anche il supporto a Taiwan è più moderato, come dimostrano il simbolico rifiuto al presidente taiwanese di fare scalo a New York durante un suo viaggio verso l’America centrale e l’imposizione di nuovi dazi del 20 per cento.

Il pragmatismo di Trump porta all’abbandono del modello della concorrenza tra potenze al quale egli stesso aveva aderito. Piuttosto che competere, gli Stati Uniti vogliono collaborare cercando accordi che nel recente passato sarebbero stati definiti in contrasto con gli stessi interessi americani. È un modello di tipo «collusivo» simile a quello che ha creato l’Europa nel secolo scorso, dove però uomini forti cercano di imporre al resto del mondo una visione e decisioni quanto più condivise.

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Un chiaro esempio è dato dal vertice di Anchorage tra Trump e Putin, con la totale riabilitazione di quest’ultimo agli occhi dell’opinione pubblica internazionale. Stati Uniti e Russia condividono oggi la stessa visione del mondo, visione che è probabile riusciranno a imporre a una sempre frammentata e debole Europa e a una Cina alla quale un’eventuale pace tra Russia e Ucraina farebbe senz’altro comodo.

Con la Cina il rapporto è decisamente più complicato. Come già detto, alla tregua deve seguire qualcosa di più stabile e strutturato. Se Pechino è ottimista sul raggiungimento di un accordo commerciale, è decisamente più incerta sul futuro politico del rapporto con Washington. Parti importanti dell’amministrazione cinese, data l’imprevedibilità del presidente americano, ritengono infatti che gli Stati Uniti potrebbero ritornare ad attaccare politicamente la Cina e soprattutto tentare di isolarla all’interno del sistema di relazioni internazionali, cosa che la Cina ovviamente cerca di evitare.

Su quest’ultimo punto, parte dell’amministrazione e delle istituzioni americane teme che il simultaneo attacco a Cina e Unione europea possa invece far rinsaldare il loro rapporto a danno degli interessi degli Stati Uniti. Un rapporto, che pur avendo celebrato quest’anno i cinquanta anni di relazioni diplomatiche, non è mai di fatto decollato. Reciproche diffidenze ed errori commessi da entrambe le parti non hanno consentito di affrontare gli importanti temi economici legati alle interdipendenze economiche tra Europa e Cina alla luce del mutato quadro geopolitico.

Eppure, dopo la Belt and Road Initiative, tutt’altro che una partnership con obiettivi condivisi, Unione europea e Cina sono state molto vicine a firmare un importante accordo che avrebbe sicuramente impresso un significativo cambiamento alla loro relazione. Il riferimento è al Comprehensive Agreement on Investment (Cai), un accordo che si proponeva di dare un’unica e stabile cornice legale agli investimenti di entrambe le parti che avrebbero sostituito i numerosi accordi bilaterali in vigore. Il Cai avrebbe rappresentato, sebbene con alcune ombre che alimentarono lo scetticismo di analisti e politici, un’importante opportunità per affrontare le tre grandi criticità connesse all’ingresso e all’espansione della Cina sui mercati internazionali: reciprocità di accesso, regole condivise sul clima, lavoro e salute.

L’accordo non è stato mai ratificato per un “gioco” di sanzioni e ritorsioni tra le parti che dimostrò il prioritario interesse della Cina per la tutela della propria sovranità contro ogni forma di ingerenza; la stessa ingerenza a cui fu sottoposta l’Unione europea da parte degli Stati Uniti affinché non ratificasse l’accordo e si allineasse alla sua strategia di contenimento.

Ad allontanare oggi per gli Stati Uniti il pericolo di una nuova convergenza di interessi tra Cina ed Europa, risuscitando il Cai, contribuiscono almeno due importanti fattori.

Il primo risiede nell’ancor più squilibrato rapporto di forza tra le parti, nonostante la dimensione simile delle due economie e la loro significativa dipendenza dalle importazioni di energia. La Cina e l’Europa si trovano entrambe nella necessità di trovare sbocchi alle loro produzioni soprattutto oggi che il mercato americano potrebbe sensibilmente ridursi in conseguenza della svolta iper-protezionista dell’amministrazione Trump. In tal senso, hanno forse ragione coloro che negli Stati Uniti ritengono che sia molto difficile che Bruxelles e Pechino possano trovare un’intesa. Come del resto dimostra il vertice tenutosi tra Cina e Unione europea, che al di là di importanti dichiarazioni di intenti, non ha prodotto alcunché di significativo, per non dire che si sia trattato di un vero fallimento, soprattutto per l’Europa.

Il secondo fattore risiede invece nel rapporto privilegiato che la Cina ha con la Russia, ostacolo forse ancor più difficile da superare in quanto Pechino si è, di fatto, apertamente schierata al fianco di Mosca nella guerra russo-ucraina, cosa che l’Europa non può evidentemente accettare data la sua posizione di supporto in favore dell’Ucraina e della legalità internazionale.

È certo che Pechino avrebbe gradito che la Russia non avesse invaso l’Ucraina, dato che con entrambi i Paesi vanta eccellenti relazioni politico-commerciali. Anche durante la guerra, nonostante la vicinanza a Mosca, la Cina ha continuato a commerciare con l’Ucraina, di cui è il principale partner con un interscambio che si aggira intorno agli 8 miliardi di dollari, cifra ben lontana dai circa 250 miliardi di import-export che ha con la Russia.

In più di un’occasione, le autorità europee hanno richiesto alle loro controparti cinesi di esercitare tutta la loro influenza affinché si giungesse a un cessate il fuoco e, auspicabilmente, a una pace equilibrata e duratura. I vari appelli non hanno prodotto alcun risultato, come del resto tutti i tentativi diretti compiuti dagli Stati Uniti nonostante le varie e tracotanti dichiarazioni di Trump.

La Cina apprezzerebbe la fine della guerra in Ucraina, anche se a prendersene il merito fosse il rivale Donald Trump

Credit: TODD BANNOR/ALAMY

Sul tema del conflitto in corso tra Russia e Ucraina, la Cina appare però sempre più divisa ed è per questo che apprezzerebbe la conclusione della guerra anche se a prendersene il merito fossero gli Stati Uniti e in particolare il rivale Trump.

In Cina, da un lato ci sono politici e cittadini che, non dimenticando le invasioni subite, simpatizzano per l’Ucraina e il suo popolo, ammettendo che quest’ultima abbia subito una evidente violazione alla sua integrità territoriale. Dall’altro, la posizione che sembra prevalere, nonché quella ufficiale, si schiera con Mosca in quanto oggetto di accerchiamento e contenimento da parte dell’Occidente. Un trattamento che la Cina percepisce sia riservato anche a sé stessa, in particolare dagli Stati Uniti. Tra gli analisti, si consolida la tesi che a spingere Xi Jinping sempre più verso Putin abbiano anche significativamente contribuito la retorica e le azioni intraprese da Washington e Bruxelles.

Il mondo vive oggi una situazione di particolare “disordine” che ha fatto tramontare l’idea di una convivenza globale. Vige la regola della forza che gli Stati Uniti applicano e tollerano e che forse sperano che anche la Cina esplicitamente adotti. Che l’idea di fondo sia quella di un mondo diviso in aree di influenza di vecchie e nuove potenze?

Se così fosse, per riprendere Fukuyama, non sarebbe “La fine della storia”, bensì la storia che ricomincia.


Daniele De Giovanni
Economista, è stato presidente e amministratore delegato di Enipower. Ha ricoperto diversi incarichi manageriali, dall’Iri ad Alitalia. È stato capo di gabinetto del presidente del Consiglio nel secondo governo Prodi.