Il potere del cambiamento: la forza invisibile che muove il mondo
Non più semplice transizione tra passato e futuro, il cambiamento è il terreno costante su cui si muove il mondo. Dal lavoro alla tecnologia, dalla geopolitica alle istituzioni pubbliche. Tra accelerazioni continue e capacità di adattarsi e governare il flusso
IL CONTESTO
Guardare il mondo attraverso il paradigma del cambiamento costante serve a creare nuove categorie per interpretarlo.
Fin dall’antichità, filosofi e scrittori hanno riconosciuto il cambiamento come elemento essenziale della vita. Eraclito, filosofo greco del VI secolo a.C., scriveva: «Panta rei», tutto scorre. Nulla resta immobile. Eppure, quante volte ci aggrappiamo a ciò che conosciamo, temendo che il nuovo possa distruggere il fragile equilibrio che abbiamo costruito?
Ne “Il Gattopardo”, Giuseppe Tomasi di Lampedusa mette in bocca al principe di Salina una frase che è diventata emblematica: «Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi». Una frase paradossale, ma profondamente vera, che rivela come persino la conservazione dello status quo abbia spesso bisogno di mutamento.
Oggi, il cambiamento non è più una semplice transizione tra passato e futuro: è diventato il terreno costante su cui si muove la nostra esistenza. Viviamo in un’epoca di accelerazioni continue, in cui i cicli politici, economici, culturali e tecnologici si comprimono sempre di più, le crisi si moltiplicano e le certezze vacillano. In questo scenario, il cambiamento si impone come sfida ineludibile, come rischio e, al tempo stesso, come opportunità. Chi fa resistenza arretra; chi lo cavalca costruisce il futuro.
Eppure, il vero potere del cambiamento non sta tanto nella sua rapidità, quanto nella sua capacità di rivelare. Cambiare significa affrontare la verità di ciò che non funziona più, riconoscere l’inadeguatezza di vecchie abitudini, strutture e modelli. In questo senso, il cambiamento è uno specchio collettivo: riflette ciò che siamo oggi e anticipa ciò che potremmo diventare domani.
A livello individuale, la trasformazione è divenuta una costante strutturale. Le identità si fanno più fluide e frammentate: la professione, i rapporti, il ruolo civico, persino il corpo stesso, diventano ambiti negoziabili e in continua riconfigurazione. La figura dell’individuo radicato in un’identità stabile è ormai l’eccezione, non la regola.
Il cambiamento, dunque, parte dall’interno. Spesso significa ricominciare: dopo un fallimento, una perdita, un licenziamento, o semplicemente in risposta a un contesto mutato. Non si tratta di un’esperienza riservata alle élite culturali: milioni di persone, ogni giorno, si reinventano per necessità, passione o sopravvivenza.
Un esempio emblematico è quello della creator economy: giovani (e non solo) che costruiscono da zero percorsi professionali sfruttando il proprio capitale narrativo e relazionale. Influencer come Chiara Ferragni o Emma Chamberlain, inizialmente partite da blog di moda o vlog spontanei, si sono trasformate in imprenditrici con milioni di follower. Ma accanto ai casi di grande successo, esistono migliaia di storie invisibili, di freelance, videomaker, sviluppatori e artigiani digitali che costruiscono quotidianamente la propria traiettoria senza le reti di sicurezza offerte da impieghi tradizionali.
Anche il concetto di resilienza si è trasformato: non si tratta più di resistere passivamente ai colpi, ma di saperli assorbire per trasformarsi. In questa nuova era, la rigidità è un ostacolo. Servono adattabilità, creatività, apertura.
Per le aziende, il cambiamento non è più un’opzione strategica, ma una condizione esistenziale. L’impatto combinato di tecnologia, pressioni ambientali, concorrenza globale, mutamenti sociali e geopolitici impone trasformazioni radicali. Chi non evolve è destinato a scomparire. I casi di Kodak, Blockbuster e Nokia sono diventati veri e propri ammonimenti: non basta essere stati i primi, né essere grandi; serve sapersi rinnovare e reinventare il proprio modello prima che lo faccia il mercato. Al contrario, aziende come Microsoft dimostrano che è possibile rinascere. Sotto la guida di Satya Nadella, la società ha modificato profondamente la sua cultura organizzativa, aprendosi alla collaborazione, alla sperimentazione e alla trasformazione digitale. Patagonia ha fatto dell’impegno ambientale il cuore della propria identità, destinando i profitti alla tutela del pianeta e ridefinendo il concetto stesso di impresa. Ikea si è spostata verso modelli basati su economia circolare – riparazione, noleggio, riutilizzo – mentre Lego ha puntato su sostenibilità e co-creazione per superare la propria crisi identitaria. In tutti questi casi, il mutamento è stato vissuto non come reazione, ma come scelta strategica e visione di lungo termine. Un investimento sul futuro, non un semplice costo da sostenere.
Il mondo del lavoro è uno degli ambiti più esposti al cambiamento. La pandemia ha accelerato processi già in corso: smart working, lavoro remoto, automazione, erosione del tempo pieno, crescita dell’autoimprenditorialità. Secondo molte analisi, numerose professioni attuali saranno trasformate o scompariranno entro il prossimo decennio. Per questo, la capacità di apprendere nuove competenze – il reskilling – è cruciale. Aziende di persone come Accenture stanno investendo massicciamente nella formazione continua della propria forza lavoro. E non solo a livello tecnologico.
Anche le istituzioni democratiche si trovano esposte al cambiamento. Da un lato la disintermediazione, che ha eroso la fiducia dei cittadini. Dall’altro, la necessità di risposte sistemiche
Le persone chiedono oggi qualcosa di più dal proprio impiego: autonomia, flessibilità, e soprattutto significato. Il lavoro, per molti, non è più solo un contratto, ma una parte della propria identità. Le “grandi dimissioni” negli Stati Uniti, il fenomeno del quiet quitting, l’ascesa del freelance sono segnali evidenti di un cambiamento culturale profondo.
Le aziende che ignorano queste trasformazioni – restando ancorate a modelli gerarchici e impersonali – perdono attrattività, specialmente presso le nuove generazioni. Chi invece promuove ambienti fondati sulla fiducia, l’ascolto e la crescita condivisa, raccoglie fedeltà, innovazione e coesione. Oggi, l’empatia è una risorsa manageriale, non un accessorio emotivo.
Anche le istituzioni pubbliche si trovano in un momento delicato. Da un lato, la disintermediazione ha eroso la fiducia dei cittadini; dall’altro, la complessità delle sfide contemporanee richiede risposte sistemiche, coordinate e lungimiranti. Alcuni esempi virtuosi esistono: l’Estonia ha costruito un modello di Stato digitale, trasparente ed efficiente; Barcellona, con la piattaforma Decidim, ha sperimentato forme di democrazia partecipativa; In Italia, strumenti come Io e PagoPa rappresentano tentativi iniziali verso un’amministrazione moderna.
L'APPROFONDIMENTO
Modello Estonia
L’Estonia è leader nella digitalizzazione dei servizi pubblici. Ogni cittadino ha un’identità elettronica che serve da accesso per tutte le interazioni con le istituzioni pubbliche. Il Paese ha già ottenuto il pieno accesso alle cartelle cliniche elettroniche. E il programma e-Residency consente di creare e gestire un’azienda completamente onlilne. Il 52,6% delle imprese estoni adotta già il cloud, superando in modo significativo la media dell’Ue del 38,7%.
Ma siamo ancora lontani da un sistema realmente aperto e adattivo. Le minacce sono due: da un lato, la tecnocrazia – con algoritmi opachi capaci di prendere o influenzare decisioni – dall’altro, l’inerzia istituzionale. Entrambe compromettono la legittimità democratica. Serve prima di tutto un cambiamento culturale, che rimetta al centro la relazione tra potere e cittadino.
A questo riguardo, negli ultimi anni si è affermata una tendenza preoccupante: l’espansione e la legittimazione dei regimi autoritari. Dalla Russia alla Cina, dall’Iran alla Turchia, fino a diversi Paesi africani e asiatici, si consolidano modelli politici fondati su controllo, censura e repressione. La novità è che questi regimi si presentano come alternative funzionali alla democrazia, promettendo ordine, efficienza, sicurezza. In tempi di incertezza, la stabilità diventa un bene prezioso, e l’autoritarismo una pericolosa tentazione. Anche nelle democrazie occidentali si osservano derive illiberali: concentrazione dei poteri, delegittimazione della stampa e delle università, uso delle emergenze per sospendere diritti. La “tentazione autoritaria” non è più un’eccezione. È un rischio sistemico.
La geopolitica riflette questa tensione. L’ordine internazionale costruito dopo la Seconda guerra mondiale – basato su regole condivise e istituzioni multilaterali – è in crisi. La guerra in Ucraina ne è la manifestazione più evidente: per la prima volta dal 1945, un Paese europeo ha invaso un altro con la forza militare ignorando trattati, confini, diritti. E la reazione internazionale, pur forte, ha dimostrato l’inefficacia delle istituzioni sovranazionali nel prevenire o contenere l’aggressione.
La Cina propone un modello di influenza fondato su tecnologia, commercio e controllo sociale, ma al prezzo delle libertà individuali. Intanto, nuovi attori – aziende tecnologiche, criptovalute, gruppi armati, organizzazioni transnazionali – aggirano regole condivise per decenni e ridefiniscono i rapporti di forza globali. Il diritto internazionale rischia di diventare un optional. La politica estera si costruisce sul potere, non più sul consenso. Il soft power cede il passo al realismo muscolare. È un cambiamento profondo, che richiede nuove categorie di interpretazione.
Tra le forze trasformative del nostro tempo, l’innovazione tecnologica è la più dirompente. Intelligenza artificiale, biotecnologie, robotica, blockchain, neurotecnologie non stanno solo cambiando il modo in cui viviamo. Stanno ridefinendo ciò che siamo. La linea tra umano e artificiale, naturale e digitale, si fa ogni giorno più sottile.
L’intelligenza artificiale, in particolare, sta reimpostando il rapporto tra individui, conoscenza e lavoro. Per chi lavora nei settori creativi, legali, educativi o amministrativi, l’Ia è insieme assistente, concorrente e, talvolta, giudice. Diverse aziende stanno già delegando all’Ia funzioni complesse: produzione di contenuti, customer service, progettazione. Ciò genera efficienza, ma anche ansia diffusa: il timore di diventare superflui. Un recente sondaggio di Fortune indica che quasi la metà dei neolaureati alla ricerca di lavoro negli Stati Uniti è convinta che l’Ia riduca il valore del loro diploma.
Nel quotidiano, l’Ia filtra ricerche, notizie, suggerimenti, interazioni. Il rischio è quello di delegare non solo l’esecuzione, ma anche l’interpretazione e il giudizio. Serve una nuova alfabetizzazione digitale. Le competenze tecniche non bastano: bisogna sviluppare pensiero critico, etica della tecnologia, capacità di discernimento. Così come un sistema condiviso che regoli l’uso improprio degli algoritmi.
Emerge la necessità urgente di regole chiare, di strumenti formativi diffusi, di un’etica pubblica della tecnologia. L’Ia non è buona né cattiva in sé. È uno specchio del nostro modo di usarla. E se non la governiamo, rischiamo che essa governi noi.
La tecnologia è un moltiplicatore di potere. Può emancipare intere popolazioni – ma può anche rafforzare monopoli, sorvegliare cittadini, manipolare opinioni. In molti casi, l’innovazione corre più veloce della regolamentazione. Il pericolo è che la società arrivi troppo tardi, quando i giochi sono già fatti.
Di fronte a tutto questo, la sfida principale è educativa. Dobbiamo preparare menti capaci di abitare l’incertezza, gestire la complessità, orientarsi tra verità che appaiono plurime. Scuole, università, media, imprese, famiglie: tutti devono concorrere a questa missione. Non si tratta di insegnare la flessibilità come dovere passivo, ma di coltivare spiriti critici e creativi.
Il cambiamento, per essere costruttivo, deve essere compreso, governato, indirizzato. Come ammoniva il noto futurista americano Alvin Toffler: «Gli analfabeti del XXI secolo non saranno quelli che non sanno leggere e scrivere, ma quelli che non sapranno imparare, disimparare e reimparare».
Il cambiamento non è un mostro da combattere, ma un ponte da attraversare. Non sempre è facile, e spesso fa paura. Ma come nella metamorfosi di Kafka, anche nei momenti più strani e incomprensibili possiamo trovare una nuova forma di verità. Non possiamo fermare il tempo, ma possiamo decidere in che direzione andare.
Il potere del cambiamento è la forza più profonda che abbiamo. È ciò che ci distingue dalle macchine, ciò che ci rende vivi. Cambiare è un atto di fiducia. In noi stessi, nel futuro, negli altri. E forse, dopotutto, come scriveva Luigi Pirandello, «la vita non si spiega: si vive. Cambiando».
Dante Roscini
Laureato in ingegneria nucleare, è Professor of Management Practice alla Harvard Business School, dove è stato insignito della L.E. Simmons Fellowship. Ha alle spalle una carriera nel settore finanziario.