La caduta degli Dei

Nonostante il raffreddamento sulla Diversity Equity and Inclusion partito negli Stati Uniti, nelle aziende l’attenzione alla diversità continua a esistere. Non fosse altro perché in Europa ormai è diventato un obbligo di legge. E in parte già funziona

Ester Viola
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IL CONTESTO
Dopo il boom dei programmi di Diversity Equity and Inclusion, si vive una nuova fase, ma non è la fine.

In principio era Diversity and Inclusion poi la sigla si allargò e divenne Dei, Diversity, Equity and Inclusion. Dai primi risultati, Google o intelligenza artificiale, si traduce così: diversità, equità e inclusione. Questi tre concetti rappresentano un approccio strategico fondamentale per promuovere un ambiente di lavoro e una società più giusti, inclusivi e rispettosi, dove tutte le persone si sentano valorizzate e abbiano le stesse opportunità.

Bellissimo, sarebbe addirittura normale, possibile che non succedesse da sé, in una società civile ed evolutissima come quella in cui abitiamo? Possibile. Non succedeva, infatti, e c’era invece molto lavoro da fare. I rami di interesse quindi erano i ghetti? Esistevano ghetti aziendali? Più o meno: diversity culturale, poi religiosa, poi razziale, poi divenne diversity pure lo scarto di generazioni, che ora si chiama ageing. Poi vennero le sensibilità: sono giovane e insicuro, l’azienda ha un clima tossico. Da lì in poi, in un turbine di corsi di formazione che si moltiplicavano – molti virtuosamente e altrettanti inutilmente – non si è capito più dove si doveva andare.

La si chiami come si vuole, l’organizzazione era molto varia. Alcuni hanno pure assunto un diversity manager. Altri dicevano inclusive culture a ogni riunione e finiva lì. Il lessico è cambiato e con lui cambiavano i cartelloni nelle mense aziendali. Così, mentre in Italia ci chiediamo «è la fine della diversity in azienda?», da quell’altra parte dell’Oceano, da dove l’onda del progresso era partita, la parola è diventata radioattiva.

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Nei continenti meno impulsivi (da noi), le politiche Dei hanno seguito un’evoluzione più sensata, si sono trasformate in un fatto di compliance. Quindi alla domanda «è finita la diversity?», la risposta può essere intelligente e burocratica: no, perché adesso è un obbligo di legge, di rendicontazione e di governo societario. Non ci arriva la cultura, ci arrivano i mercati. Meglio di niente.

Dire «è la fine» nemmeno è usare la parola corretta. C’è stato, quello sì, un solenne raffreddamento retorico – e meno male. La corporate sustainability è uscita dalla macchina delle bolle di sapone dello storytelling: l’hanno fatta diventare rendicontazione obbligatoria.

Esempio: la direttiva Ue 2022/2381 sull’equilibrio di genere nei board. Gli Stati membri avrebbero dovuto recepirla entro il 28 dicembre 2024; le aziende hanno tempo fino al 30 giugno 2026 per centrare i target: almeno il 40 per cento dei non esecutivi o il 33 per cento dell’intero consiglio d’amministrazione appartenenti al genere sottorappresentato.

L’Italia contro le previsioni è arrivata prestissimo, anzi – si può dire – prima: la Golfo-Mosca del 2011 ha portato in un decennio la presenza femminile nei board dal 7 a oltre il 40 per cento. A fine 2023 le donne occupano il 43 per cento degli incarichi nei cda delle quotate. Le ceo no, non esistono ancora in percentuali decenti (siamo a circa il 2 per cento). La fotografia è Consob: la quota minima del 40 per cento è cosa fatta, i vertici esecutivi parecchio meno.

Dai programmi aziendali sulla diversity ai convegni, oggi è la fase della compliance tra norme europee e linee guida

Storia del Dei

Si è seguita la solita trafila delle mode manageriali: partenza con entusiasmo un po’ imbecille, poi si istituzionalizza con le policy, kpi e comitati dedicati, e poi – nei casi peggiori – evapora. Come è successo con la “qualità totale” degli anni Novanta, la corporate social responsibility che si nominava con spallucce e leggeri imbarazzi tra gli occupanti le sedie delle riunioni importanti.

Oggi siamo alla trasformazione di fase. Sono finiti i convegni benintenzionati ed è arrivata la compliance. Normativa europea, linee guida Efrag, direttive sugli Esg reporting: vi piace quando l’ideale diventa adempimento? Meglio che vi piaccia.

Con l’Esrs S1 Own Workforce, le imprese devono esporre decine di metriche: composizione della forza lavoro per genere, quota di persone con disabilità, salari adeguati, pay gap e via così. Non basta dire «siamo inclusivi», servono i documenti. Bisogna misurare e pubblicare.

Ultima spallata (interessante): la direttiva Ue sulla trasparenza retributiva (2023/970). Entro giugno 2026 gli Stati membri devono introdurre regole che impongono alle aziende reporting sul gender pay gap, diritto all’informazione sui livelli retributivi, valutazioni congiunte quando lo scarto supera certe soglie. Fine dei segreti meglio conservati nelle aziende.

Conclusione parziale: se anche la D capofila fosse passata di moda nella lingua d’azienda, l’infrastruttura giuridica non solo regge ma aumenta. Negli Stati Uniti, dove nel frattempo (2025) un ordine esecutivo federale ha dettato lo smantellamento dei programmi Dei nel perimetro pubblico, le università sono il primo fronte e il risultato è quello non piacevole che abbiamo visto. Lo stiamo ancora vedendo.

Sui privati, survey e analisi mostrano aziende che riformulano o riducono i programmi, cambiano le parole (ora prevalenza di “belonging” e “culture”) e, in alcuni casi, tagliano. Si parla di walk-back selettivi e di rebranding. Che vuol dire? Che “Dei” come sigla è in ritirata negli Stati Uniti, ma gli obiettivi di gestione del rischio umano (contenzioso, reputazione, talenti) restano – solo che vengono rinominati e giustificati in altro modo. In Europa, invece, gli obiettivi hanno regole alle spalle e sono parecchio noiosi gli adempimenti per far sbocciare il fiorellino raro dello scarto culturale. Ci vogliono tabelle, soglie, audit.

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Quel che ha funzionato

Quel che ha funzionato - Credit: UNSPLASH

Definiamo funzionare. Se intendiamo più donne nei cda, i numeri italiani – grazie alla legge – dicono di sì: oltre il 40 per cento. I ceo no, restano maschi. Se «funzionare» significa ridurre il gender pay gap, la strada è lunga. Istat rileva differenziali ancora ampi: più marcati tra i laureati, 16,6 per cento, e addirittura 30,8 per cento tra i dirigenti. Se «funzionare» significa inclusione delle persone con disabilità, in Italia c’è una legge dal 1999 (numero 68) con quote obbligatorie oltre i quindici dipendenti. Anche qui, l’efficacia dipende dal rigore dei controlli e dall’effettiva qualità degli inserimenti. La prossima tornata di Esrs S1 – che chiede di pubblicare la percentuale di dipendenti con disabilità – renderà il tema improvvisamente visibile.

I team legali e di public affair americani hanno capito per primi che certe parole attirano contenzioso, meglio prendere vie sintattiche laterali: perciò le aziende riformulano, spostano in compliance. Ma non smettono di gestire i rischi di discriminazione, reputazione, talent attraction. In parallelo, gli investitori istituzionali europei chiedono i numeri (non interessa il commitment). Chi opera su più giurisdizioni impara una lezione, che a dirla tutta è perfino intuitiva: sono le stesse pratiche, identiche, ma raccontate in modo diverso.

La domanda che resta sensata, tra tutte quelle che cadono, non è «è finita l’era della diversity?», ma «cos’è stata, l’era della diversity»?

Per anni la diversity è stata un metapiano di Pr, un insieme di cerimonie e belletti che bisognava far finta di trovare eccitanti (panel, pledge, ambassador, orride slide), buoni propositi e metafore sul buon vivere. Ora è finito il libro di fiabe ed è cominciata l’infrastruttura. Quote nei consigli, kpi certificati, pay gap disaggregato e pubblicato, metriche su disabilità, rendicontazione standardizzata. Ha perso la vanteria di produrre un’immediata rivoluzione culturale – come fai? Te la inventi? – e civiltà locale. Perché ora gli stakeholder vogliono traiettorie verificabili: entro il 2026 i board europei avranno quote minime, le aziende pubblicheranno gap di retribuzione e quote disabilità. Ovviamente sistemi premiali per chi ha alti tassi di virtù.

È comunque plausibile che, mentre queste mie studiate analisi vengono redatte, sistemi di intelligenza artificiale siano già in fase avanzata di sviluppo da parte di ingegneri competitivi in stanzette molto buie. In un orizzonte non remoto, l’elaborazione dei piani aziendali per un’impresa bella, illuminata e sostenibile potrebbe essere demandata ad Archie il Robottino. Sarà lui a garantire la corretta distribuzione delle percentuali, senza residui discrezionali né necessità di redigere tre cartelle per argomentarne la razionalità. Dopodiché Archie il robottino e i suoi fratelli prenderanno sempre più incarichi e scrivanie, noialtri diventeremo la quota diversity, finché ci diranno «andate a casa, facciamo noi». E comincerà il migliore o il peggiore dei mondi possibili, vedremo.


Quel che ha funzionato

Ester Viola
Avvocata, collabora con Il Foglio. Cura una posta del cuore sul settimanale iO Donna e una newsletter, Ultraviolet. Tra i suoi libri, “L’amore è eterno finché non risponde”, “Gli spaiati” e “Voltare pagina”.