La Gen Z non cerca aziende perfette, ma contesti in cui poter essere sé stessa

Li dipingono come scansafatiche e poco inclini al sacrificio, ma la realtà è che i giovani della Generazione Z hanno dato un senso nuovo al lavoro. E per questo stanno rivoluzionando il mondo delle imprese

Lidia Baratta
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IL CONTESTO
Cosa chiedono i giovani della Generazione Z nel mercato del lavoro e come le imprese stanno reagendo per attirare i talenti.

«Ho appena fatto un colloquio e ho detto subito che la priorità per me è mantenere la flessibilità oraria del mio attuale lavoro. Mi hanno quasi riso in faccia!». Gianmarco ha 29 anni ed è un esponente della “temutissima” Generazione Z. Quella dei primi nativi digitali, nati tra la metà degli anni Novanta e il 2012, che stanno mettendo alla prova datori di lavoro e recruiter di mezzo mondo, ridisegnando il modo di lavorare e portando nelle aziende nuovi bisogni e valori. Non senza qualche frizione con le generazioni precedenti, anzi.

Entro il 2030, i rappresentanti della Gen Z saranno il 58 per cento della popolazione lavorativa globale. Giovani, che sono sempre di meno numericamente, ma che compongono anche la generazione più formata di sempre. In Italia nel 2024, il 47 per cento dei neoassunti era laureato. Nel 2020 questa percentuale era solo al 20 per cento.

Cresciuti in un mondo instabile, tra crisi economiche, pandemia, emergenza climatica e guerre, nei sondaggi gli appartenenti alla Gen Z mostrano un forte orientamento al presente (meno sul futuro), ma con una grande sensibilità rispetto agli impatti sociali e ambientali delle loro azioni. Dunque, anche la scelta dell’azienda per cui lavorare diventa cruciale nella costruzione delle identità di ciascuno di loro.

In modo semplicistico, vengono spesso etichettati come «poco motivati», meno inclini ai sacrifici, a lavorare su turni o nei fine settimana. Ma come dimostra la ricerca “La Generazione Z e il futuro del mondo lavoro”, condotta dall’Osservatorio HR Innovation Practice della School of Management del Politecnico di Milano, quello che c’è dietro è in realtà una sempre maggiore consapevolezza delle proprie priorità. Non rifiutano il lavoro, ma lo guardano con occhi nuovi, chiedendo equilibrio con la vita privata, flessibilità e riconoscimenti, non solo economici, in un ambiente che offra opportunità concrete di crescita personale e professionale. 

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Non si tratta solo di un cambio generazionale, quindi, ma di un mutamento nel modo stesso in cui il lavoro viene concepito e vissuto. Lo stipendio adeguato resta in cima alle priorità, ma non è l’unico driver nelle scelte professionali.

«Non è vero che non abbiamo più voglia di lavorare. Il fatto è che non abbiamo più voglia di lavorare così», spiega Silvia Zanella, esperta di lavoro e autrice di “Basta lavorare così” (Bompiani). «La Gen Z ha portato questa istanza alla ribalta, ma la stanchezza verso certi modelli lavorativi è ormai diffusa anche tra chi è entrato nel mondo del lavoro da tempo. La pandemia ha accelerato una presa di coscienza collettiva: non è più considerato accettabile sacrificare benessere, autonomia e senso per un lavoro che non restituisce valore, né personale né sociale. Non è una questione di pigrizia, ma di rifiuto verso modalità che non funzionano più per nessuno, né per le persone né per le aziende».

Priorità diverse che modificano il concetto stesso di successo e di carriera, costringendo anche i datori di lavoro a pensare in modo diverso. Secondo i dati raccolti dal Polimi, un esponente su due della Gen Z dà molta importanza alla flessibilità oraria e di luogo e il 15 per cento cambierebbe azienda per l’assenza di pratiche che favoriscano il lavoro agile. Più della metà (54 per cento) ricerca nelle aziende servizi di welfare per il proprio benessere fisico e mentale, oltre a opportunità di formazione e aggiornamento per garantirsi un’occupabilità futura. E il 44 per cento ritiene importante trovare un ambiente di lavoro che sappia valorizzare il proprio talento.

Una volta entrati nelle organizzazioni, gli esponenti della Gen Z desiderano feedback immediati, con percorsi di crescita chiari. E le loro aspettative in termini di apprendimento e sviluppo professionale sono spesso più elevate rispetto alle generazioni precedenti. Secondo un sondaggio della piattaforma RippleMatch, “How Fast Does Gen Z Expect to Be Promoted?”, il 70 per cento si aspetta una promozione entro diciotto mesi.

«L’ingresso nel mondo del lavoro della Gen Z porta nelle aziende bisogni che sono diventati urgenti per tutti: ricerca di senso, attenzione al benessere mentale, desiderio di crescita rapida e feedback costanti», spiega Silvia Zanella. «È vero che molti giovani si aspettano una promozione in tempi brevi, ma questo nasce da un mercato del lavoro che li vede come “merce rara” e da una consapevolezza del proprio valore negoziale».

La convivenza con le vecchie generazioni nelle aziende, certo, non è priva di attriti. Ma offre anche grandi possibilità di contaminazione positiva. Bobby Duffy, direttore del Policy Institute del King’s College di Londra e autore di “The Generation Myth: Why When You’re Born Matters Less Than You Think”, consiglia ai datori di lavoro di non creare strategie aziendali specifiche per la Generazione Z, ma piuttosto di concentrarsi sull’avvicinamento e la collaborazione tra generazioni. «I giovani possono portare un digital mindset nativo e una attenzione all’equilibrio vita-lavoro», dice Zanella. «I più esperti offrono visione, memoria storica, capacità di gestione della complessità. Il vero salto culturale è riconoscere il valore di entrambe le prospettive e costruire ponti, non muri».

NUMERI

58%

La Gen Z nel mercato del lavoro entro il 2030.

15%

Cambierebbe azienda senza possibilità di lavoro agile.

54%

Ricerca nelle aziende servizi di welfare.

In un mercato in piena crisi demografica e che vede i giovani come “merce rara”, molti di loro si aspettano promozioni in tempi brevi

In un momento storico caratterizzato dalla scarsità di manodopera e dalla crisi demografica, aggravata in Italia anche dalla scelta sempre più frequente dei più giovani di trasferirsi all’estero, le imprese sono quindi chiamate a ripensare il loro approccio per attrarre e trattenere i talenti.

Anche perché la flessibilità viene applicata alla stessa idea di carriera, che non è più una linea retta dalla prima assunzione alla pensione. Da un’analisi di LiveCareer, viene fuori infatti che nel 2025 solo la metà dei lavoratori italiani presenta un curriculum senza interruzioni. Soprattutto tra la Gen Z, si diffonde il cosiddetto «microretirement», micropensionamento, che vuol dire prendersi di tanto in tanto un periodo di pausa dal lavoro viaggiando e dedicandosi ai propri hobby, senza dover aspettare per forza l’età della pensione. E aumenta pure il cosiddetto «job hopping», ovvero il cambio frequente di lavoro, non solo nell’ottica di guadagnare di più ma anche di cercare ambienti sempre più stimolanti.

Avere un lavoro, insomma, non basta più (almeno non a tutti). La carriera non è più al centro della vita. Ma nello stesso tempo quello che si desidera è «un bel lavoro», come ha scritto Alfonso Fuggetta, docente di Informatica al Politecnico di Milano, nel libro “Un bel lavoro. Ridare significato e valore a ciò che facciamo” (Egea). Se i confini tra lavoro e vita privata sono venuti meno, anche il lavoro contribuisce quindi a definire la propria identità. Per questo si cerca un posto che sia in linea con i propri hobby e i propri valori. Da una ricerca della Fondazione Ipe Business School, è emerso che l’86 per cento dei giovani non ha infatti paura di rifiutare offerte professionali che non rispettino il proprio equilibrio tra vita e lavoro.

In questo contesto, quindi, gli annunci di lavoro non possono più essere quelli del passato. Nelle offerte di lavoro online, oltre allo stipendio e al tipo di contratto offerto, capita sempre più spesso di trovare orari flessibili, lavoro da remoto, retreat aziendali, ore e budget dedicati alla formazione. E qualche volta anche la possibilità di avere il giorno libero per il proprio compleanno.

«A differenza anche del recente passato, gli annunci oggi parlano di “purpose”, di benessere, di inclusione, di flessibilità», conferma Zanella. «La vera sfida per le aziende è passare dalle parole ai fatti, ascoltando davvero i bisogni delle persone e costruendo esperienze lavorative autentiche». Le imprese che sapranno accogliere queste istanze saranno anche quelle più attrattive e competitive.

«Come gestirci?», si chiede Jordan Schwarzenberger, 28enne co-founder della società pubblicitaria Arcade Media. «Dandoci la libertà di vincere e di perdere. Crendo spazio per la sperimentazione. Stabilendo limiti basati sulla fiducia, non sul controllo. Affidandosi ai nostri punti di forza: social media, creatività, innovazione. Soprattutto, scegliendo l’empatia».

Ma occhio alla retorica aziendale della «grande famiglia», mette in guardia Zanella. «Alle aziende suggerisco di trattare i giovani da adulti: ascoltare, responsabilizzare, offrire fiducia e strumenti per crescere. Serve chiarezza sui valori, coerenza tra dichiarazioni e comportamenti, attenzione al benessere reale. Non solo benefit di facciata. La Gen Z non cerca aziende perfette, ma contesti in cui poter essere sé stessi, imparare, sbagliare e contribuire davvero».

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Lidia Baratta
Giornalista a Linkiesta, si occupa principalmente di economia, politica economica, lavoro e imprese. Cura la newsletter settimanale “Forzalavoro”. È tra i membri di N-Ost, Network for Border Crossing Journalism.