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Il business del futuro tra sharing economy e lavoro on demand

Il business del futuro tra sharing economy e lavoro on demand

In America ci sono 53 milioni di freelance, quasi un terzo della forza lavoro. Entro il 2050, i lavoratori autonomi saranno il 50% della popolazione attiva. Per la generazione millennial si prospetta un futuro all’insegna della creatività, ma anche pieno di incertezze.

 

 

Addio badge e cartellini timbrati. Il futuro del lavoro è on demand. Cioè si lavora solo quando c’è richiesta per i propri servizi, prodotti e competenze.

In America, dove spesso si anticipano i trend globali, la chiamano “gig economy”, prendendo in prestito quel termine jazzistico che indica i palchi musicali aperti a tutti.  Dopo un assolo improvvisato in compagnia  del quartetto di base, il musicista ospite torna in platea alla ricerca della prossima esibizione. Con queste modalità, quasi un terzo della popolazione statunitense si guadagna da vivere svolgendo attività  da freelance. Per molti non si tratta della prima occupazione, ma della seconda o della terza, al fine di completare il salario e  far quadrare i conti a fine mese.

Tuttavia, il dato indicativo è che il 45% dei lavoratori indipendenti sono quei “millennial” che hanno un’età compresa tra 18 e 34 anni. Per questa tribù di nomadi digitali – che racimolano qualche dollaro utilizzando i canali della sharing economy, trasformandosi in autisti con Uber Pop, vendendo servizi sulle piattaforme online dedicate ai liberi professionisti come Freelancer.com o consegnando la spesa a domicilio – non si tratta di lavoretti passeggeri, ma probabilmente di un nuovo stile di vita.

Secondo Anders Borg, il politico ed economista svedese che è anche presidente del World Economic Forum, la sicurezza del lavoro è messa sotto pressione “dalla competizione globale, dalla digitalizzazione e dalla robotizzazione” dei processi produttivi. Una ricerca dell’Università di Princeton condotta da Alan Kreuger e Lawrence Katz ha fatto emergere che i freelance non sono solo il frutto dell’economia digitale e della progressiva disintermediazione dei servizi, perché operano anche in fabbrica (l’11% della forza lavoro USA), nella salute e nell’educazione (16%) e nella pubblica amministrazione (10%). Insomma il dado è tratto e non si tornerà indietro. Le opportunità sono immense, ma i rischi connessi alla precarietà sono altrettanto elevati. Basti pensare che solo il 4% dei freelance made in America guadagna più di 50 mila dollari l’anno.

Il giovane architetto americano, grazie alla Rete potrà disegnare gli interni della casa di un imprenditore indiano o quelli della Dacia di un avvocato russo. Quindi si spalancano le porte di grandi opportunità. Tuttavia, lo stesso professionista subirà la concorrenza di prezzo dei servizi dei colleghi nei paesi emergenti. È il “mondo piatto” previsto anni fa da Thomas Friedman, dove la competizione è globale per tutti e le prestazioni lavorative continuative vanno in pensione. Con ogni probabilità il lavoro on demand libererà i professionisti dalla noia del posto fisso, che potranno specializzarsi nei campi che preferiscono avendo a disposizione un mercato globale.

Ma questo modello di economia rischia di avere gambe fragili. La mancanza di un reddito certo, ferie retribuite o benefit di welfare – dalla sanità al sistema previdenziale – rappresentano le grandi sfide a cui dovranno badare i millennial. Il fenomeno non è solo americano. In Italia, i lavoratori indipendenti, seppur in diminuzione rispetto agli scorsi anni, sono il 20% della popolazione attiva.

E con il tramonto del generoso welfare state delle generazioni passate, i freelance di tutto il mondo dovranno cominciare a pensare a costruire reti di protezione per il proprio futuro.